M.T. Alcune letture della tua poesia riconducono a una traccia cabalistica. Or ora hai parlato di spiritualità. Ci puoi parlare di questo aspetto che sembra particolare per un poeta rivoluzionario?
J.H. Quando ero adolescente io ero diventato involuto. Dopo la guerra con l’impegno politico sociale ho preso a scrivere poesia. Erano gli anno cantati dalla “bella bandiera” pasoliniana. Cominciando a scrivere ho naturalmente cercato di leggere tutti i poeti che ho potuto trovare. Un giorno ho trovato la Bibbia di Kabbalah, il nome Zohar, il “libro dello splendore”. Scritto da Moïse De Leon, che si è rivelato come un poeta, un giovane poeta molto interessante. In cui questi uomini, i rabbini, camminano sui sentieri parlando delle lettere, delle parole. Con concetti basati appunto sui discorsi sulle lettere e su tante altre immagini straordinarie, abbaglianti. Così sono stato influenzato. Devo ricordare che io sono originario di una famiglia ebrea di New York, anche se non ero religioso ed ero contro il sionismo. Come direbbe Pasolini la mia era una famiglia piccolo borghese, ed ebbi modo di realizzare che la Kabbalah rappresentava per me, poeta, la sinistra del pensiero ebraico. Ed ha continuato a rappresentarlo. In questi 45 anni ho imparato poco sulla Kabbalah anche se essa ha riguardato la mia poesia. Però se debbo dire, io che non sono utopista, ecco, forse i kabalisti un poco utopisti lo sono. Io invece crescendo ho vissuto la mia vita sul filo di un forte senso dell’ingiustizia sociopoliticoculturale. E ho trovato la mia strada in sintonia con quella marxista. Ed anche leninista. Perchè io credo che l’Unione Sovietica, la Rivoluzione russa abbia creato le opportunità per donne e uomini di vivere con il senso delle possibilità. Come, ancora, nel Pasolini che mette la natura insieme alla “bella bandiera”. Non si tratta solo di possedere materialmente delle cose, bensì di sentire una vera e propria monumentalità interiore. Cosa che io cerco, che cerco per recuperare in questo momento che io credo sia il più potente nella vita dell’umanità. Anche se la gente, in particolare chi è nato dopo la caduta dell’Unione Sovietica, non ha memoria. Il più grande lavoro per l’arte, per me, è riferito a questo momento. Che pure è difficile a spiegarsi, è inesprimibile.
M.T. Chi pensi oggi avrebbe necessità, di una “A” per sfuggire al proprio destino, donne, immigrati o chi altri? Oppure, al contrario, non c’è da temere che rifiuterebbero la “A” pur di rincorrere il sogno di guadagno o di fulgido domani?
J.H. La “A” era propriamente un grado, il più alto. All’epoca dell’arruolamento coattivo per il Vietnam io ero professore ed appresi che chi otteneva la “A” evitava la divisa. Così decisi che a tutti gli studenti di due mie classi, circa seicento studenti, avrei assegnato la “A”. Oggi è diverso. Ad esempio la guerra di oggi è fatta da volontari. Le guerre oggi sono diverse. La guerra in Vietnam era guerra di ideologie. La guerra contro il terrorismo ha radici, in entrambi i lati, nelle religioni, e nel capitalismo. La cosa è più grave perchè l’erosione delle aspettative di socialismo nel mondo ha permesso il riproporsi di elementi più arretrati. L’entrata in scena delle religioni richiede una ferma opposizione perchè la difesa della laicità è una delle cose più importanti da salvaguardare.
M.T. Un tempo gli imprenditori scommettevano su progetti a medio/lungo termine. Due esempi. Ford, magari per interesse proprio, comunque voleva produrre in modo che tutti i suoi operai potessero comprarsi l’auto. Olivetti aveva cura dei suoi lavoratori con asili, colonie estive ecc. Oggi i manager vogliono sottrarre il malloppo alle classi sfruttate nel volgere dell’anno. Visto dalla parte della cultura umanistica, è semplice decadenza o uno dei tanti segnali di attesa, anche interna ed inconscia, dell’apocalisse capitalistica?
J.H. Questo è complicato. Provo a ragionare. I capitalisti non hanno interesse ad altro che a fare profitti. Usano ogni strumento a tal fine. Un esempio: il computer. Anche se nel mondo tante persone usano il computer non è vero che ci fa più liberi. Certo se ne ha l’illusione, ma in effetti ha creato la prigione della comunicazione. Che è diventata banale, triviale e terrificante. Io, informandomi per scrivere un arcano su un pugile che è morto, ho trovato su un motore di ricerca tantissime pagine di boxe. Sono rimasto choccato perchè frammiste a queste ho trovato innumerevoli pagine di persone violate, donne. Mia moglie mi ha detto che a molti piace guardare tali violenze. E’ una malattia, d’accordo, ma fa parte della prigione della comunicazione. Per tornare alla domanda. L’introduzione di robot genera espulsione di operai. Esempio classico negli Stati Uniti. Una fabbrica per produrre trattori girava con mille operai, con la robotizzazione ne bastano tre. Novecentonovantasette sono espulsi, inutili, sono finiti. E questo avviene ovunque nel mondo. Supponiamo ora che tutto nel mondo venga fatto dai robot. Per creare una casa prefabbricata bastano quarantacinque minuti. Tutta la catena alimentare è gestita da robot. E via esemplificando. Tutto ciò forse è tecnicamente possibile. Quindi quasi il raggiungimento ipotetico della felicità comunista. Cosa frena questo sogno? E’ una vecchia storia. E’ la proprietà privata, con spinta allo sfruttamento, alla competizione, ai profitti. Così noi, intendo io/noi che negli Stati Uniti lavoriamo in un gruppo rivoluzionario, noi pensiamo sia necessario che le persone fuori dal sistema facciano la rivoluzione. Crediamo debbano farlo perchè hanno nulla da perdere tranne le catene. Queste sono le contraddizioni che ci fanno ritenere importante per noi educare gli uomini nel mondo su questa nuova classe di esclusi. Per esempio, a partire da Pasolini, si conoscono i temi della contaminazione tra classe operaia e borghesi. Ora, volendo usare una frase di Giorgio Agamben, il computer ha reso, culturalmente parlando, tutto il mondo piccolo borghese. Ecco, questa mi sembra una buona rappresentazione, il sogno tecnologico del mondo di diventare piccolo borghese. Però queste contraddizioni non ci devono far dimenticare che il fondo della nostra vita dopo la seconda guerra mondiale è la morte. In tanti diversi sensi. La morte diretta con la guerra, ma anche la morte più romanticizzata nel senso di Heidegger, che pure ha influenzato il mio lavoro, perchè per lui la risoluzione di tempo ed essere è diventata poesia. Per questo mi interessa molto la sua idea, anche se lui è stato un porco durante la guerra. Dopo non si può dire sia diventato marxista, ma un qualcosa di cabalista in lui si trova. Con Alicia la presenza contestuale al ritiro dall’esistenza ricorda il dualismo luce - scuro della Kabbala.
M.T. Lasciando stare i narcisi che si incipriano il sedere, quindi il volto, con scatolette di cultura autorizzata, a che livello pensi si ponga per le classi sfruttate la rivendicazione del bello, inteso come natura, arte, poesia?
J.H. Quando sono stato espulso dall’Università, vivendo per strada, ho visto i veterani della guerra in Vietnam, ho frequentato persone senza fissa dimora e incontrato altre ingiustizie. Allora ho deciso di saltare all’identificazione con la classe operaia e con i poveri. In quel senso ho affermato che esistevo come poeta. Anche se dentro di me non mi penso come un poeta ma semplicemente come una persona che può fare una cosa che tutto il mondo può fare. In questo senso io ho messo il mio talento al servizio del futuro. Così come io non sono rivoluzionario solo per vedere la gente disporre di beni in accordo con i propri bisogni. Bensì anche per cambiare le condizioni storiche, così che le persone possano vedere che tutti sono poeti. Io lotto per la rivoluzione nel senso di servizio, perchè la bellezza, la felicità non vengono semplicemente soddisfando i bisogni elementari. Come ho scritto in una mia poesia io voglio recuperare la condizione da seppelliti vivi e dimenticati, per ritornare ad esistere.
E.L. Cosa c’è, cosa c’è stato in America dopo la beat generation. Qui pare sia ancora molto viva, vitale..?
J.H. Ma perchè qui sembra viva? L’immagine dell’America per gli italiani è di un grande paese. L’America ha avuto questo movimento letterario che è originato da una tendenza seppellita in America. Da Walt Whitman, Jack London. Quella è la fonte di Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Corso. Ma dopo la seconda guerra mondiale è arrivata la morte. Quest’anno, ho vinto il Premio Alfonso Gatto. Per l’occasione ho tradotto un paio di poesie di Gatto. Un verso illuminante recita: “tutto di noi gran tempo è per la morte”. Questa linea proviene dalla seconda guerra mondiale e la beat generation è l’espressione di difesa contro questa morte. Perchè non va dimenticato che Henry Miller, una sorta di padre della beat generation, anche se ad altro livello, ha descritto in “Tropico del cancro” un luogo in cui tutte le persone sono morte. Ma se tutte le persone sono morte cosa resta da fare? Aprire la bocca e cantare! In quel senso la beat ha cantato contro i giorni grigi dell’America, culturalmente parlando, rispetto ad una poesia post-bellica molto accademica. Poi è diventata commerciale in America per tanti anni. Ma quale beat non è diventata commerciale? E’ complicato. Provo ancora a spiegarmi. Una delle cose fondamentali della beat generation è lo spinello! Non è una filosofia, anche se Kerouac era serio come buddista così come Gary Snaider. Ma allo stesso tempo è tutto riconducibile alla filosofia dello spinello. Altra cosa importante per la beat generation è il jazz. Ma se la beat continua tristemente a dire, a parlare, è perchè dopo la caduta dell’Unione Sovietica culturalmente nessun altro movimento ammette la voce di un poeta. La beat generation è legata all’oralità della poesia. Ciò è molto importante perchè la poesia sulla carta è come lo spartito per una musica, ci vuole il suono, e la beat generation ha aperto la finestra in tal senso. Certo prima c’era stato Kenneth Patchen, un grande poeta americano legato alla classe operaia, lui ha letto jazz in poesia prima della beat, e pochi altri. Poi diversi eventi, come il Vietman, hanno intensificato la pratica della lettura. I miei amici della beat generation lo sono da lungo tempo, ma sono appunto amici. Soltanto Amiri Baraka ed io ci siamo identificati, io bianco e lui nero, a noi non bastava scrivere poesia per il coro degli altri poeti. Noi siamo consapevoli che la vera avanguardia nel mondo sono i poveri. L’abilità di scrivere poesia sta nella capacità di servire quest’avanguardia.
E.L. Ci vuoi parlare di Gregory Corso che se non sbaglio hai conosciuto bene?
J.H. Gregory per me è un amico. Io ho scritto una poesia che è un ritratto di Gregory che a lui stesso penso sarebbe piaciuto. Dopo la sua morte ho letto tanti omaggi. Era un uomo molto difficile, terribile, con le donne specialmente. Ma allo stesso tempo un uomo schiavo, schiavo della droga per tanti anni e io ho detestato la sua schiavitù. Allo stesso tempo, (non consideratela vanagloria: è poco più di una barzelletta!), Jack Michelin, Irin Coin Koin AIRI Andy Allen Cohen, David Melsa, Martin Matz, Gregory Corso ed io (io ed un paio di altri) siamo i poeti della città di New York. Tutti gli altri sono extra.. extraurbani! Comunque, anche se era schiavo io apprezzavo Gregory perchè sapeva con una grande sensibilità portare le sue notti, la sua droga, il suo alcool, le sue strade, - era un pazzo sulle strade! - nella poesia del mattino dopo. Gregory ha usato le immagini in modo molto inventivo, combinandole con i versi in maniera molto brillante. L’omaggio a Kerouac è forse una delle più belle cose che abbia scritto.
Questa è la conversazione che Jack Hirschman ha voluto regalarci nel pomeriggio del 5 maggio scorso. La sera poi, a Settimo Torinese, in un Teatro Garybaldi esaurito, ha offerto ad un pubblico coinvolto e partecipe un reading intenso e combattivo, costruito su un intreccio avvicente con le note jazz del “The good life quartet”. La serata rientrava nelle iniziative della “Primavera dei poeti” per l’organizzazione dell’entusiasta Laurent Leon dell’Associazione “Les Droles” di Giaveno e dell’infaticabile Enrico Lazzarin per l’Associazione Due Fiumi, con il contributo della “Casa della Poesia” di Baronissi e la partecipazione essenziale della Biblioteca Civica e Multimediale della città di Settimo Torinese. Maestro di scena, insieme al Direttore della Biblioteca, Riccardo Ferrari, l’impeccabile Sergio Notario.