(Il gruppo di Emergency di Torino)
In Afghanistan con Emergency: un’esperienza di pace.Salina Loris, infermiere.Emergency è un’organizzazione umanitaria il cui obiettivo è curare le vittime dei conflitti armati e portare assistenza sanitaria a tutti coloro che subiscono le conseguenze sociali di guerra, fame, povertà, emarginazione. In Afghanistan si è occupata della costruzione dell’ospedale di Kabul, di un secondo nella valle del Panshjer e di un terzo a Lashkar-Gah, nel sud del Paese, che è operativo dal settembre del 2004. L’ospedale di Kabul cura principalmente le vittime di guerra, per lo più bambini, dato che, come tristemente è noto, sono i più colpiti. Ma non c’è giorno in cui non vi si presentino persone colpite da mine, da scontri a fuoco, dall’esplosione di un razzo, oppure vittime di cadute dall’alto, di incidenti stradali o altri infortuni. Questa struttura è costituita da sei reparti di degenza, di cui uno sub-intensivo, due sale operatorie e una Rianimazione, per un totale di cento posti letto. La Rianimazione, che è attrezzata con monitor, ventilatore, pompe da infusione e defibrillatore del tutto simili a quelle presenti negli ospedali dei Paesi sviluppati, conta sei posti letto troppo spesso occupati da bambini, vittime innocenti di traumi o mine. A completare l’efficienza dell’ospedale ci sono servizi come l’Amministrazione, la cucina, la lavanderia, l’officina per la manutenzione.Dato che la Rianimazione era stata inaugurata solo nell’Agosto del 2003, appena due mesi prima del mio arrivo, ho dedicato maggiori energie al reparto di Terapia Intensiva più che al Pronto Soccorso, operativo già dall’aprile 2001. La logica di Emergency è costruire ospedali destinati a rimanere alla popolazione dei Paesi in difficoltà e, in quest’ottica, la finalità ultima della mia attività non era il sostituirmi al personale locale bensì addestrarlo e consentirgli così di giungere, nel tempo, a un’autonomia lavorativa.
Io sono stato sei mesi in Afghanistan, dall’Ottobre 2003 a Marzo 2004, lavorando nell’ospedale di Kabul come responsabile della Rianimazione e del Pronto Soccorso e posso dire, senza falsa retorica, che l’Afghanistan è un Paese dove alla povertà e alla miseria vista già in altri luoghi si aggiunge quella cosa terribile che è la guerra. La mia è stata un’esperienza forte, che mi ha immerso in una realtà molto lontana da quella in cui avevo sempre vissuto, e mi ha insegnato a modificare il mio giudizio su molti aspetti della vita e a relativizzare di più su quello che mi circonda.
La mia giornata iniziava alle 8.00 con il ritrovo di tutto lo staff internazionale in Pronto Soccorso per le consegne del medico locale e per un rapido quadro dei pazienti ricoverati nelle ultime 24 ore; dopodiché, ognuno di noi si recava nei diversi reparti a svolgere il lavoro che lo attendeva. Durante il mio periodo di permanenza oltre a me che – come ho detto prima – mi occupavo della Rianimazione e del Pronto soccorso, c’erano un infermiere professionale che seguiva la sala operatoria e la farmacia, altri due che si occupavano dei reparti, due chirurghi e un un’anestesista. Durante la mattinata mi dedicavo allo svolgimento delle differenti attività infermieristiche assieme al personale locale, e lavorare al loro fianco è stato utile per comprendere quali fossero gli ambiti in cui era più necessario e urgente intervenire. Nel pomeriggio, invece, mi dedicavo principalmente alla preparazione delle lezioni, dei test per le valutazioni del personale infermieristico e alla redazione delle linee guida, che riguardavano procedure infermieristiche di base, come il trattamento delle medicazioni (come e quando cambiarle), il cateterismo vescicale e la sua gestione, il trattamento delle infusioni e dei circuiti dei ventilatori, la broncoaspirazione, e altro ancora.
Tutto veniva stato svolto conformemente alle linee guida di Atlanta del 2002. Ottenuto l’avvallo della “medical coordinator”, cioè la responsabile dell’ospedale, le linee guida sono state introdotte nella pratica clinica quotidiana con l’ausilio di lezioni formative che si tenevano a ogni turno. Ho, inoltre, svolto lezioni inerenti l’accettazione del paziente in rianimazione, il corso di BLS (Basic Life Support), l’uso del defibrillatore, ecc. e ho addestrato il personale infermieristico a organizzare i carrelli delle terapie, delle medicazioni e delle urgenze.
Accanto all’attività di formazione, ho avuto anche mansioni logistico-organizzative, che comprendevano l’approvvigionamento del materiale sanitario e non, il riordino e l’inventario attraverso opportune “cheek list” di tutto il materiale presente nel magazzino, la gestione dei turni, i colloqui di assunzione. Al fine di mantenere la maggiore coerenza possibile nella metodologia del lavoro, ogni attività si è svolta seguendo un principio di continuità con l’operato di chi mi aveva preceduto e di chi mi avrebbe poi sostituito al termine dei sei mesi.
Ogni tre giorni circa ero “on call”, ovvero reperibile 24 ore su 24: terminato l’abituale giro visite del mattino in tutti i reparti, mi recavo, come sempre, in reparto e proseguivo nel mio lavoro, ma potevo essere chiamato in Pronto Soccorso tutte le volte che arrivava un nuovo paziente e, alla fine della giornata, verso le 18.00, ero tenuto a compiere un ultimo giro visita. Nonostante le ore notturne rendessero la città più tranquilla, mi è capitato spesso di dovermi recare in ospedale nel cuore della notte, per ricoveri urgenti o per l’aggravamento delle condizioni cliniche di alcuni pazienti, e diverse volte le sale operatorie sono state operative fino a ora tarda.
Mi ricordo in particolar modo di una sera in cui io e i miei colleghi siamo stati chiamati dall’OPD per il ricovero d’urgenza di dodici pazienti vittime di un incidente stradale: appena giunti in ospedale, abbiamo aiutato a soccorrere i primi quattro mentre in brevissimo tempo venivano portati gli altri feriti, per la maggior parte bambini. Una volta effettuato il ‘triage’ per valutare le priorità di intervento, ci siamo preoccupati ,con l’aiuto di infermieri afgani “reclutati“ nei vari reparti, di stabilizzare le condizioni dei feriti e di prepararli, ove necessario, per l’intervento in sala operatoria. La mobilitazione generale si è conclusa in poco più di tre ore e tutti i pazienti sono stati trasferiti nei vari reparti, tranne un bimbo di un anno che, dopo due giorni di osservazione in rianimazione per un preoccupante trauma cranico, è stato poi fortunatamente trasferito in reparto, accanto alla madre.
Avevo un giorno libero alla settimana che trascorrevo stando a casa o andando a visitare i FAP (First Aid Post), ovvero ambulatori di Emergency collocati in luoghi distanti dall’Ospedale per poter fornire un'assistenza sanitaria capillarizzata su un territorio più vasto. I FAP, che svolgono sostanzialmente attività ambulatoriale e di “follow up” per i pazienti dimessi, attualmente sono diciotto, sei di appartenenza all’ospedale di Kabul e dodici all’ospedale del Pansjer, ma ne stanno già sorgendo di nuovi che faranno riferimento all’ospedale di Lashkar-Gah.
Lo staff internazionale include il personale medico, infermieristico, fisioterapista e figure professionali come il logista, ovvero colui che si occupa della parte organizzativa dell’ospedale che non concerne quella sanitaria, l’amministratore per la parte contabile e amministrativa, il geometra e l’ingegnere per eseguire i lavori di costruzione. L’equipe lavora sempre affiancando il personale locale assunto da Emergency, con il quale comunica in inglese.
Non è stato facile lavorare in un ambiente così diverso dal nostro e con abitudini così differenti. A volte non tutto era così immediato e disponibile e bisognava sapersi arrangiare... per dirla con una metafora “a far fuoco con la legna che si ha”. In questi mesi mi sono venute a mancare le mie abitudini di vita, ma il vedere quanto utile fosse il nostro lavoro e il percepire la gratitudine della gente attraverso un abbraccio, un sorriso, un grazie ripetuto mille volte, mi ha aiutato a superare ogni difficoltà. In questi sei mesi mi sono trovato di fronte a tante vittime della guerra, per la maggior parte bambini colpiti da mine. I civili resi mutilati da mine o bombardamenti sono ciò che i “signori della guerra” definiscono “effetti collaterali”. Quando medicavo le ferite o quello che era rimasto dell'arto di un ragazzino innocente provavo rabbia e impotenza, perché leggevo in quelle ferite l’ingiustizia di quello che stava avvenendo attorno a me.
Purtroppo le vittime da mina sono ancora numerose: da un rapido calcolo fatto, è risultato che circa una persona al giorno riporta ferite da mina.
Fra le tante persone che ho conosciuto in questi mesi e di cui porterò sempre i volti nella mia memoria, in particolare mi lega a Aleem un ricordo dolce e affettuoso. Aleem è un ragazzino di 12 anni che, saltato su una mina mentre raccoglieva della legna lungo il fiume, si è “provocato” l'amputazione di entrambe le gambe al di sopra del ginocchio. E’ rimasto ricoverato per 5 mesi, durante i quali si è “dovuto sottoporre”, dimostrando un coraggio straordinario, a svariati interventi chirurgici finalizzati all’allestimento dei monconi con innesti di cute. Emergency si è occupata, in un secondo momento, di apportare anche alcune modifiche architettoniche alla casa di Aleem affinché non incontrasse difficoltà a muoversi con la carrozzina in attesa che gli fossero fornite le protesi.
Di Aleem non dimenticherò mai il sorriso e la voglia di vivere che trasmetteva, ma questa non è che una delle tante storie vissute in prima persona che potrei raccontare.
La cura e la riabilitazione delle vittime colpite dalle mine antiuomo è una delle principali attività che Emergency svolge in questo Paese, ed è importante ricordare e sottolineare che le mine non uccidono ma mutilano, creando una popolazioni di invalidi e annullando il concetto di Pace. Credo che anche Aleem, come tutti i ragazzi dell’Occidente, abbia il diritto di essere curato al meglio delle possibilità che la medicina può offrire; e credo che non debba essere privato della dignità di essere un “paziente” solo perché considerato un “bambino povero che vive in un Paese in guerra” e come tale destinato a subirne le conseguenze più atroci. Voglio rifiutarmi di tenere per me stesso, come privilegio esclusivo, il diritto di essere vivo e di essere curato, diritto che appartiene a tutti gli esseri umani indistintamente. E in questo non credo di fare regali a nessuno.
Questo è il mio modo di essere contro la guerra, sottraendole le vittime, e per questo ho deciso di portare un po’ della mia professionalità a persone meno fortunate di me.
Ho trovato l’Afghanistan e la sua gente estremamente affascinanti. La popolazione di quel Paese è stanca della guerra, perché continua tragicamente a subirla. Ho conosciuto persone che hanno voglia di costruire e di andare avanti, che hanno ancora fiducia nella vita, persone che sanno essere generose anche se non possiedono nulla. Vi assicuro che nonostante la miseria e la povertà, sui visi degli Afghani non scomparivano mai il sorriso e il buon umore, immagini che porterò sempre con me. Ho incontrato più umanità in quei luoghi di guerra che nei nostri Paesi civilizzati e, fra le macerie della città di Kabul, che doveva essere bellissima prima che i bombardamenti cancellassero il suo antico splendore, la gente ha ancora voglia di vivere, malgrado le condizioni siano difficili, e sta ricominciando a ricostruire e a ricostruirsi.
Questa è stata senza dubbio un’esperienza molto forte e arricchente. Voglio ringraziare tutte quelle persone che mi hanno permesso di viverla così intensamente credendo in ciò che facevo e offrendomi il loro appoggio: la mia famiglia, gli amici, i colleghi. Ringrazio tutto il personale di Emergency che, con grande professionalità e umanità, si impegna tutti i giorni a divulgare una cultura di Pace e solidarietà. Ringrazio anche tutti i volontari del gruppo Emergency di Torino, di cui faccio parte dal 1998, che mi sono stati molto vicini con le loro e-mail. Grazie veramente a tutti.
(Loris Salina)
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